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DANTE E L’INDIA

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Con la sua “dottrina che s’asconde – sotto il velame delli versi strani” e con la sua certezza di essere solo il copista di Amore, Dante non fu un “letterato” più di quanto non lo siano stati un rshi vedico o un mantrakrt, ma fu un veggente, un enunciatore della verità (satyavâdin).


(Ananda K. Coomaraswamy)

 

Quando sulla montagna del Purgatorio Dante e Virgilio vengono invitati dall’angelo della castità ad entrare nelle fiamme, perché altrimenti non potrebbero proseguire la salita, è il tramonto del 12 aprile. Il sole occupa la medesima posizione in cui si trova quando invia i suoi primi raggi a Gerusalemme, mentre il fiume Ebro scorre sotto la costellazione della Bilancia, che è alta nel cielo, e le acque del Gange sono infuocate dal sole pomeridiano. “Sì come quando i primi raggi vibra – là dove il suo fattor lo sangue sparse, – cadendo Ibero sotto l’alta Libra, – e l’onde in Gange da nona riarse, – sì stava il sole” (Purg. XXVII, 1-5). Dante indica l’ora del giorno mediante il riferimento a quattro punti geografici fondamentali: Gerusalemme, l’Ebro, il Gange, il Purgatorio. Secondo la geografia dantesca, infatti, la terra abitata dai vivi corrisponde alla superficie dell’emisfero boreale ed ha al proprio centro Gerusalemme, la quale, trovandosi agli antipodi del Purgatorio, è equidistante dall’estremo occidente, segnato dall’Ebro, e dall’estremo oriente, rappresentato dal Gange. Perciò, quando il sole sorge sul Purgatorio, all’orizzonte di Gerusalemme il giorno tramonta sull’Ebro e la notte scende sul Gange; al mattino del 10 aprile, mentre i due poeti erano ancora alle falde della montagna, il sole era già arrivato all’orizzonte di Gerusalemme e la notte, girando opposta al sole, usciva dal Gange nella costellazione della Bilancia (costellazione nella quale esso non si trova più dopo l’equinozio d’autunno, quando la notte diventa più lunga del dì). Con le parole di Dante: “Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto – lo cui meridian cerchio coverchia – Ierusalèm col suo più alto punto; – e la notte, che opposita a lui cerchia – uscia di Gange fuor con le Bilance, – che le caggion di man quando soverchia” (Purg. II, 1-6).

Che il Gange sia il vero oriente del mondo, Dante lo ribadisce nell’XI del Paradiso: la “fertile costa” di Assisi, l’Oriente da cui sorse la luce solare di San Francesco, è equiparata al Gange, dal quale, nell’equinozio di primavera, il sole, più luminoso che mai, nasce rispetto al meridiano di Gerusalemme.

L’altro grande fiume dell’India, l’Indo, viene assunto nella Commedia come simbolo dei luoghi orientali non toccati dalla predicazione cristiana. Nel cielo di Giove l’Aquila, figurazione dell’eterna idea della giustizia, espone a Dante il dubbio che egli nutre circa il dogma cristiano della giustificazione per la fede: se “un uom nasce alla riva – dell’Indo, e quivi non è chi ragioni – di Cristo né chi legga né chi scriva” (Par. XIX, 70-72) e quindi, senza sua colpa, “muore non battezzato e sanza fede” (Par. XIX, 76), perché mai Dio, che è somma giustizia, lo condanna per l’eternità?

Gli Indiani, ai confini orientali del mondo, non sono stati raggiunti dalla buona novella; però furono anch’essi testimoni dell’eclisse che si verificò alla morte di Gesù ed interessò tutti i popoli della terra: “all’Ispani e all’Indi, – come a’ Giudei, tale eclissi rispose” (Par. XXIX, 101-102).

Tra le fonti medioevali relative a quell’estrema e sconosciuta regione vi era il De situ Indiae et itinerum in ea vastitate, ritenuto una lettera di Alessandro Magno ad Aristotele (1). Da una citazione dell’epistola contenuta nei Meteora di Alberto Magno ( I, 4, 8 ) Dante apprende di un episodio di cui Alessandro sarebbe stato protagonista in India e lo utilizza per costruire una similitudine: “Quali Alessandro in quelle parti calde – d’India vide sopra il suo stuolo – fiamme cadere infino a terra salde, – per ch’ei provide a scalpitar lo suolo – con le sue schiere, acciò che lo vapore – mei si stingueva mentre ch’era solo: – tale scendeva l’etternale ardore” (Inf. XIV, 31-37). Insomma, le falde di fuoco che nel terzo girone del settimo cerchio tormentano i violenti contro Dio (bestemmiatori, usurai, sodomiti) ricordano a Dante le fiamme che Alessandro vide piovere sul suo esercito nelle regioni calde dell’India: erano fiamme che restavano accese finché cadevano a terra, per cui il Macedone ordinò ai soldati di calpestare bene il terreno, affinché il fuoco si spegnesse meglio finché era isolato.

La caratterizzazione dell’India come regione particolarmente calda ritorna in Purg. XXVI, 21-22: “ché tutti questi n’hanno maggior sete – che d’acqua fredda Indo o Etiopo”. Le anime purganti dei lussuriosi notano che Dante è vivo e ardono dal desiderio di avere da lui una spiegazione più di quanto ardano per la sete gl’Indiani o gli Etiopi.

Un’altra meraviglia dell’India di cui Dante è al corrente, è che laggiù crescono alberi altissimi: la notizia gli proviene verosimilmente da Virgilio, secondo il quale in quell’estrema parte del mondo, nelle vicinanze dell’Oceano, vi sono alberi tanto alti, che nessuna freccia potrebbe raggiungerne la cima (2). Ma l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male si eleva ancora più in alto, sicché costituirebbe oggetto di meraviglia per gl’Indiani: “La coma sua, che tanto si dilata – più quanto più è sù, fora da l’Indi – ne’ boschi per altezza ammirata” (Purg. XXXII, 40-42).

Ma nel Purgatorio ci sono due altri alberi (Purg. XXII-XXIII e in Purg. XXIV) che ci rimandano all’India: sono quelli che si trovano presso la cima della montagna, al di sotto della pianura del Paradiso Terrestre. Il primo albero “è l’immagine riflessa e rovesciata dell’Albero della Vita, di cui le anime del Purgatorio (cosmico) hanno fame e sete, ma di cui non possono aver parte e su cui non possono neppure salire” (3), mentre il secondo costituisce una “immagine rovesciata dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male” (4). Così il grande erudito anglo-indiano Ananda K. Coomaraswamy, il quale esamina il simbolo dell’Albero Rovesciato sulla base delle descrizioni che vengono fornite dai testi indiani, e non solo da quelli, poiché “l’idea di un albero diritto e di uno rovesciato ha una diffusione nel tempo e nello spazio che va da Platone a Dante e dalla Siberia all’India e alla Melanesia” (5). Vi sono però alcuni elementi che accomunano la descrizione dantesca a quella indiana in particolare: ad esempio, sul primo dei due alberi rovesciati “cadea de l’alta roccia un liquor chiaro – e si spandeva per le foglie suso” (Purg. XXII, 137-138), così come “gocciolante di soma” (soma-savanah) è il Fico del Brahmaloka, descritto in Chândogya-upanishad, VIII, 5, 3-4.

Infine, bisogna prendere in considerazione anche Purg. VII, 74, un verso letto e interpretato in diversi modi, nel quale però sarebbe presente, secondo alcuni studiosi (Scartazzini, Sapegno, Mattalia), il sintagma “indico legno”. Si tratterebbe della lychnis Indica, una pietra preziosa citata da Plinio (“Quidam enim eam dixerunt esse carbunculum remissiorem”); per via del suo fulgore, essa è stata evocata nella descrizione della valletta dei principi, i cui colori vividi e smaglianti ricordano lo splendore delle miniature e delle gemme preziose.

 

 

* * *

 

Tra le numerose analogie che Coomaraswamy riscontra tra la Commedia e le Scritture sacre dell’India, alcune ci sembrano particolarmente degne di nota. Il tema della “paternità solare”, enunciato ad esempio in Shatapatha Brâhmana I, 7, 6, 11, è presente anche in Par. XXII, 116; il simbolismo dell’incesto di Prajâpati, sposo e figlio di Vâc (Pancavimsha Brâhmana VII, 6; XX, 14) è identico a quello che si connette alla definizione di Maria come “Vergine madre, figlia del tuo figlio” (Par. XXXIII, 1);  i “tre mondi” (sâttvika, râjasika e tâmasika) in cui secondo il pensiero indù si differenzia la manifestazione universale trovano riscontro nella tripartizione cosmica descritta in Par. XXIX, 32-36; all’imposizione della corona e della mitra, che ha luogo nel rituale indù della “vivificazione del re”, assistiamo anche in Purg. XXVII, 142; ecc. ecc.

Già altri studiosi dell’opera di Dante avevano fatto riferimento all’India. Dante Gabriele Rossetti (1828-1880), basandosi sull’assunto che “le scuole segrete son modellate, presso a poco, sopra un solo sistema” (6) e “spesso impiegano vocaboli d’idiomi stranieri per dare un lampo di quegli arcani che non osano apertamente spiegare” (7), aveva addirittura creduto di rintracciare la sillaba sacra OM in due versi di Dante: “Chi nel viso de li uomini legge ‘omo’” (Purg. XXIII, 32) e “O om che pregio di saver portate” (Rime, Savete giudicar vostra ragione, 2).  Arturo Graf (1848-1913) aveva notato che la Commedia e la tradizione indiana attribuiscono ai luoghi della beatitudine caratteristiche simili: se nella “divina foresta spessa e viva” (Purg. XXVIII, 2) regna “un’aura dolce, sanza mutamento” (Purg. XXVIII, 7), il monte Meru non conosce “né le tenebre, né le nubi, né intemperie di nessuna sorta” (8). Angelo De Gubernatis (1840-1913), oltre ad avere rintracciato un prototipo indiano della figura di Lucifero (9), aveva identificato la montagna del Purgatorio col Picco di Adamo dell’isola di Taprobane (vale a dire Ceylon), che il mappamondo di Marino Sanudo collocava nel 1320 all’estremo limite orientale della terra: “Posto che non sia più alcun dubbio che Dante collocasse il Purgatorio in una isola, creduta deserta, agli antipodi di Gerusalemme, non mi pare ora che occorra molta fatica a discoprire che una tale isola, secondo la mente di Dante, doveva essere la terra sacra di Seilan” (10). De Gubernatis aveva anche ipotizzato che vi fosse il “paesaggio indiano” (11) all’origine della raffigurazione dantesca del carro trionfale tirato dal grifone (Purg. XXIX, 106-120). Meno sicuro nell’indicare l’ubicazione della montagna del Purgatorio era stato Miguel Asìn Palacios: “Cual fusese esta montaña, ya no es tan fàcil de precisar, porque las opiniones se dividen: bien se la supone en Siria, bien en Persia, bien en Caldea, bien en la India, pero esta ultima situaciòn ha sido la predominante” (12). Giovanni Pascoli (1855-1912), al quale la Commedia procurava “la vertigine dei libri dell’antica India” (13), aveva abbozzato un parallelo tra il principe Siddharta e l’Alighieri, Buddha dell’Europa: “Così il nostro Shakya, come lo Shakya indiano, così l’eremita come l’esule, a distanza di venti secoli, cominciano dalla profonda considerazione dell’umana miseria. Io vedo l’uno estatico a’ piedi del fico, ashvattha ficus religiosa; l’altro errante nell’ombra della selva. E dalla miseria si elevano, l’uno per svanire nel Nirvana, e l’altro per profondare nel Miro Gurge. E tutti e due dalla miseria escono ispirati a predicare a tutti la pace e l’amore: la felicità” (14). René Guénon (1886-1951) aveva paragonato “l’Imperatore, come lo concepisce Dante, (…) al Chakravartî o monarca universale degli Indù, la cui funzione essenziale è di fare regnare la pace, sarvabhaumika, vale a dire stendentesi su tutta la terra” (15).

Tra gli studi recenti, ci limiteremo qui a segnalare un saggio di Nuccio D’Anna sul De vulgari eloquentia, nel quale, per far comprendere il senso e il fondamento dell’ermeneutica linguistica di Dante, viene richiamato l’analogo procedimento indiano del nirukta, esemplificato dal brano di un testo sanscrito relativo a tale argomento (16). Nella Prefazione del saggio, d’altronde, l’autore avverte che una migliore conoscenza dei testi orientali concernenti il simbolismo linguistico – e a titolo esemplificativo egli cita, tra gli altri, anche i “Tantra indù” (17) – ci farebbe comprendere che la struttura simbolica dell’opera di Dante è straordinariamente vicina a quella delle altre culture tradizionali dell’Eurasia.

 

* * *

 

Quando Dante scrive la Commedia, a Delhi regna una dinastia afghana d’origine turca (18), quella dei Khalgî, inaugurata da Gialâl ud-dîn Fîrûz (1290-1296). Alla morte di quest’ultimo, ‘Alâ’ ud-Dîn Khalgî Muhammad Shâh (1296-1316) riconquista il Gujarât e nel 1303 si impadronisce di Chittoor nel Rajasthan. Sotto la guida di ‘Alâ’ ud-Dîn il Sultanato di Delhi sottomette quasi tutti i regni indù del sud e dell’ovest e si trasforma in un impero subcontinentale, raggiungendo così il culmine della potenza politica, dello splendore culturale e della prosperità economica. Alla morte di ‘Alâ’ ud-Dîn, il trono viene usurpato da Khusraw Khân, un cortigiano apostata dell’Islam, che getta il regno nell’anarchia, finché nel 1320 la situazione viene salvata da Ghâzî Malik Tughluq, il quale instaura un governo esemplare ma destinato a durare pochi anni (1320-1325). Tra il 1253 e il 1325, in un arco di tempo che coincide con quello della vita di Dante, operò nel Sultanato di Delhi Amîr Khusraw Dihlawî, un famoso poeta formatosi alla scuola del grande shaykh Nizâm al-Dîn Awliyâ’ (m. 1325), importante figura della Cishtiyya, l’ordine iniziatico fondato da Mu‘în ud-dîn Hasan Cishtî (1142-1236).

Di tutto ciò, Dante seppe poco o nulla. Ma neanche in India si ebbe notizia di Dante fino al secolo XIX, quando la diffusione della lingua inglese favorì negli studiosi indiani il contatto con le letterature europee. “E poi, per mera coincidenza, l’uomo che in veste di esperto consigliò alla East India Company, nel suo famoso documento sull’istruzione in India nel 1834, non solo l’uso della lingua inglese come mezzo di espressione negli uffici, nei tribunali e nelle scuole, ma anche l’insegnamento della scienza, della filosofia, della medicina, e dell’economia politica europee, e cioè Lord Macaulay, era un appassionato ammiratore della poesia di Dante, e quindi è molto improbabile che non solo il suo saggio sul poeta (in Criticism on the principal Italian writers, 1824) ma anche il suo celebre confronto fra Dante e Milton (pubbl. nell’agosto 1825 nella “Edimburg Review”), fossero sfuggiti agli studiosi indiani di letteratura inglese, e che questo stesso saggio non costituisse una delle prime letture critiche, se non proprio la prima lettura, su Dante per un principiante di letteratura italiana, e non solo per un principiante” (19).

Così vi furono poeti e prosatori che intrapresero lo studio dell’italiano al fine di poter leggere Dante nell’originale. Tra questi va citato innanzitutto il massimo poeta bengalese dell’Ottocento, Michael Madhûsudan Datta (1824-1873), autore del primo poema epico in lingua bengalese, Meghanath-Badh (1861-’62), nel quale l’influenza di Dante si rivela “soprattutto nella concezione dell’Inferno e nell’attuazione di questa concezione in termini descrittivi, geografici e topografici” (20). Alla Commedia si ispira anche un poema filosofico di Hemachandra Vanyopadhyaya (1838-1903), Chhayamayi (1880), dove i peccatori vengono assegnati alle varie zone dell’inferno a seconda dei loro peccati. Lo stesso Hemachandra, d’altronde, riconobbe esplicitamente il proprio debito nei confronti di Dante. Rabindranath Tagore (1861-1941) già all’età di sedici anni pubblicò un articolo su Dante (e uno su Petrarca). Shri Aurobindo (1872-1950) studiò ininterrottamente la Commedia e ai suoi giovani discepoli che componevano poesie (in bengalese e in inglese) propose i modelli di Dante, Milton e Goethe. Suo fratello Manmohan Ghose (1867-1924), studioso delle letterature europee, aveva avuto tra i propri compagni di studi Laurence Binyon (1869-1943), traduttore inglese di Dante. La poetessa Toru Dutt (1856-1877) scrisse un commento critico sulla traduzione della Commedia eseguita da Antonio Deschamps. Un’altra poetessa che deve essere menzionata per l’interesse nutrito nei confronti di Dante è Sarojini Naidu (1879-1949), “l’usignolo dell’India”; fu la prima donna a presiedere il Congresso Nazionale Indiano e a governare, dopo l’indipendenza, lo stato dell’Uttar Pradesh.  Dinesh Chandra Datta tradusse la Bhagavad Gita in terzine dantesche e scrisse un sonetto A Dante (21). Terminiamo questa breve rassegna citando Muhammad Iqbal (1873-1938), il massimo poeta contemporaneo dell’India musulmana, autore tra l’altro di un Jâvêd-nâma in lingua persiana che si inserisce nella tradizione dei poemi sull’Ascensione notturna del Profeta Muhammad e ricorda simultaneamente il viaggio celeste di Dante. Iqbal “fu influenzato soprattutto dalle tre grandi ‘Divine Commedie’ dell’Occidente, quella dantesca (che conosceva in traduzioni inglesi, quella miltoniana e quella goethiana” (22). Nel 1932, lo stesso anno in cui veniva pubblicato a Lahore il Jâvêd-nâma di Iqbal, sempre a Lahore usciva su “The Muslim Revival” un articolo di un non meglio precisato Inayat Ullah sulle ricerche effettuate dagli studiosi europei circa le fonti orientali della Divina Commedia (23).

Termineremo con una curiosità. Non sappiamo di traduzioni di Dante in sanscrito; risulta invece che un brano dell’Inferno (l’episodio del Conte Ugolino nei canti XXXII-XXXIII) venne tradotto in sanscrito da un italiano: l’accademico d’Italia Arturo Farinelli (1867-1948).

 

 

 

  1. Versione italiana integrale in G. Tardiola (a cura di), Le meraviglie dell’India, Roma 1991.
  2. Aut quos Oceano propior gerit India lucos, – extremi sinus orbis, ubi aëra vincere summum – arboris haud ullae iactu potere sagittae?” (Georg. II, 122-124).
  3. A. K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, Milano 1987, p. 340.
  4. A. K. Coomaraswamy, op. cit., p. 341.
  5. A. K. Coomaraswamy, op. cit., p. 333. Per una più ampia rassegna delle descrizioni indiane dell’Albero del Mondo, cfr. A. Zucco, Il significato originario di un’antica parabola (Mahâbh., XI, 5, 6, 7) e la sua diffusione letterario e artistica in Oriente e Occidente, Istituto di Glottologia, Università degli Studi di Genova, 1971.
  6. G. Rossetti, Il mistero dell’amor platonico del Medio Evo, Arché, Milano 1982, vol. I, p. 78).
  7. Ibidem.
  8. A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Arnaldo Forni, Bologna 1980, vol. I, p. 23).
  9. A. de Gubernatis, Le type indien de Lucifer chez Dante, in Actes du Xe Congrès des Orientalistes. Questo scritto, che non ci è stato possibile rintracciare, viene citato da R. Guénon (L’esoterismo di Dante, Atanòr, Roma 1971, p. 47 n.) assieme a un altro articolo del medesimo autore: Dante e l’India, “Giornale della Società asiatica italiana”, vol. III, 1889, pp. 3-19. Parlando (in L’esoterismo di Dante, cit., pp. 46-47) di coloro che “arrivano fino a supporre che Dante abbia potuto subire direttamente l’influenza indiana”, Guénon riferisce inoltre di un “estremamente superficiale” Essai sur la philosophie de Dante (Faculté des Lettres, Paris 1838), il cui autore, Antoine Frédéric Ozanam, scorge nella Commedia un’influenza indiana, oltre che islamica.
  10. A. de Gubernatis, Dante e l’India, cit., p. 10.
  11. A. de Gubernatis, Dante e l’India, cit., p. 15.
  12. M. Asìn Palacios, La escatologìa musulmana en la Divina Comedia, Hiperiòn, Madrid 1984, p. 195.
  13. G. Pascoli, Prefazione alla Prolusione al Paradiso, in Prose, vol. II Scritti danteschi Sezione II, Mondadori 1957, p. 1578.
  14. Ibidem.
  15. R. Guénon, op. cit., p. 62.
  16. N. D’Anna, La Sapienza nascosta. Linguaggio e simbolismo in Dante, I libri del Graal, Roma 2001, pp. 43-44.
  17. N. D’Anna, op. cit., p. 10.
  18. Sotto la voce India dell’Enciclopedia dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1971, vol. III, p. 420, Adolfo Cecilia, scrive invece che “Ai tempi di D. la regione (…) era praticamente tutta sotto il dominio degli Arabi” (sic).
  19. Ghan Shyam Singh, Fortuna di Dante in India, in Enciclopedia dantesca, cit., p. 421 s. v. India.
  20. Ghan Shyam Singh, ibidem.
  21. Trad. it. in Ghan Shyam Singh, cit., p. 423.
  22. A. Bausani, in: M. Iqbal, Il poema celeste, Leonardo da Vinci, Bari 1965, p. 34.  Su Iqbal cfr. C. Mutti, Avium voces, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1998, pp. 53-59.
  23. G. Galbiati, Dante e gli Arabi, in AA. VV., Studi su Dante, Hoepli, Milano 1939, p. 195.

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